venerdì 20 marzo 2009

DALL'AUTOSUFFICIENZA ALL'UMILE AUTENTICITA'

Un caro saluto a te che leggi quanto scrivo!


Nel Vangelo di oggi (vedi Lc 18,9-14), Gesù racconta la parabola del fariseo e del pubblicano che scuote fortemente e totalmente la vita cristiana e religiosa. Con questa parabola abbiamo uno stile di preghiera da assumere dinanzi a Dio e dinanzi alla società. Infine essa pone l’uomo in relazione con se stesso, con i sentimenti più veri, con i pensieri più intimi. Gesù ha un modo diverso di vedere le cose. Lui vedeva qualcosa di positivo nel pubblicano, di cui tutti dicevano: "Non sa pregare!" Gesù viveva così unito al Padre per mezzo della preghiera, che tutto diventava per lui espressione di preghiera.
Nel racconto si inserisce un terzo personaggio, quello principale: Dio, che guarda, ascolta, scruta, giudica. Nel santuario: il fariseo “sta in piedi”, non ha timore di Dio, è sicuro della sua giustizia, è un osservatore scrupoloso della legge. Nel suo pregare il fariseo sembra rivolgere le parole a se stesso, compiacendosi con sé e mostrando di essere soddisfatto. Il testo greco è più graffiante: "pros eautòn", e potremmo tradurlo così: "si pregava addosso". Non abbiamo bisogno di "pregarci addosso", ma di agire. Di avere quel giusto coraggio per annunciare quel messaggio di salvezza, quel lieto annunzio che traspare tutti i cuori.
Il resto è una presunzione che ci fa stare ad autocompiacersi davanti allo specchio, magari esaltando se stessi e disprezzando l'altro, che il testo originale identifica con "i rimanenti, lo scarto".
Dall’altra parte, il pubblicano sta in piedi, come il fariseo, però si ferma a distanza; sa di essere un indegno per stare in quel luogo. Si pone lontano anche dagli altri fedeli, consapevole delle sue miserie. Con lo sguardo abbassato in terra per la vergogna. Il suo cuore è diretto verso Dio per chiedere misericordia. In segno di pentimento e di dolore si batte il petto, la sede dei sentimenti del suo peccato. Questo proviene da lui solo; non si autogiustifica né incolpa gli altri. Con questi gesti esterni egli vuole esprimere una profonda disposizione interiore alla contrizione. Infine il pubblicano rivolge al Signore un'invocazione, ridotta all’essenziale: “O Dio, abbi pietà di me, il peccatore”. Con il cuore contrito e umiliato, si rimette semplicemente a Dio, con la fiducia trepida che Egli, che scruta i cuori degli uomini, gli perdonerà tutto. Così il pubblicano discende dal tempio e torna a casa giustificato. Il Signore è propizio a lui peccatore, sinceramente pentito, e lo rende giusto, riammettendolo nella sua divina amicizia. Ne esce un uomo trasformato, sanato, purificato, restituito alla vita di fede. La preghiera del misero è stata ascoltata da Dio, che dona a lui la totale salvezza.
E tu? Sei come il fariseo che ostenta una irreprensibilità asettica, maschera di gonfia e sprezzante presunzione? o come il pubblicano riconosci di essere ancora lontano dal regno di Dio e bisognoso della sua salvezza? La preghiera è lo specchio in cui ti trastulli compiacendoti per quello che sei e che fai, o è lo specchio della misericordia di Dio in cui ti percepisci amato e salvato?
Oggi lasciamo che la nostra preghiera sia semplice: "O, Dio, abbi pietà di me peccatore" .