Papa Francesco ai consacrati
CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PER I CONSACRATI
2 febbraio 2017
Il Papa è arrivato
qualche minuto prima delle 17.30 nella basilica di San Pietro, dove lo
attendeva il “popolo” dei religiosi e delle religiose, radunatosi intorno al
loro Pastore per la Giornata mondiale di preghiera per la vita consacrata, che
da tradizione si svolge il 2 febbraio, festa della presentazione di Gesù al
Tempio, giorno in cui il calendario liturgico segna la fine del tempo di
Natale. La Messa è cominciata con la benedizione delle candele e la
processione.
Quest'anno la Giornata
acquisisce un particolare significato di ringraziamento e di preghiera per il
dono delle vocazioni nella prospettiva del Sinodo del vescovi dedicato al tema
“I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.
Al centro della
liturgia ci sono le figure di Simeone e Anna, che «illuminati dallo stesso
Spirito riconobbero il Signore e pieni di gioia gli resero testimonianza».
L'omelia di Papa
Francesco
Quando i genitori di
Gesù portarono il Bambino per adempiere le prescrizioni della legge, Simeone,
«mosso dallo Spirito» (Lc 2,27), prende in braccio il Bambino e comincia un
canto di benedizione e di lode: «Perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e
gloria del tuo popolo, Israele» (Lc 2,30-32). Simeone non solo ha potuto
vedere, ma ha avuto anche il privilegio di abbracciare la speranza sospirata, e
questo lo fa esultare di gioia. Il suo cuore gioisce perché Dio abita in mezzo
al suo popolo; lo sente carne della sua carne.
La liturgia di oggi ci
dice che con quel rito, quaranta giorni dopo la nascita, «il Signore si
assoggettava alle prescrizioni della legge antica, ma in realtà veniva incontro
al suo popolo che l’attendeva nella fede» (Messale Romano, 2 febbraio,
Monizione alla processione di ingresso). L’incontro di Dio col suo
popolo suscita la gioia e rinnova la speranza.
Il canto di Simeone è
il canto dell’uomo credente che, alla fine dei suoi giorni, può affermare: è
vero, la speranza in Dio non delude mai (cfr Rm 5,5), Egli non
inganna. Simeone e Anna, nella vecchiaia, sono capaci di una nuova fecondità, e
lo testimoniano cantando: la vita merita di essere vissuta con speranza
perché il Signore mantiene la sua promessa; e in seguito sarà lo stesso
Gesù a spiegare questa promessa nella sinagoga di Nazaret: i malati, i
carcerati, quelli che sono soli, i poveri, gli anziani, i peccatori sono
anch’essi invitati a intonare lo stesso canto di speranza. Gesù è con loro, è
con noi (cfr Lc 4,18-19).
Questo canto di speranza lo abbiamo ricevuto in
eredità dai nostri padri. Essi ci hanno introdotto in questa “dinamica”. Nei
loro volti, nelle loro vite, nella loro dedizione quotidiana e costante abbiamo
potuto vedere come questa lode si è fatta carne. Siamo eredi dei sogni
dei nostri padri, eredi della speranza che non ha deluso le nostre madri e i
nostri padri fondatori, i nostri fratelli maggiori. Siamo eredi dei nostri
anziani che hanno avuto il coraggio di sognare; e, come loro, oggi vogliamo
anche noi cantare: Dio non inganna, la speranza in Lui non delude. Dio viene
incontro al suo popolo. E vogliamo cantare addentrandoci nella
profezia di Gioele: «Effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno
profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i
vostri giovani avranno visioni» (3,1).
Ci fa bene accogliere
il sogno dei nostri padri per poter profetizzare oggi e ritrovare nuovamente
ciò che un giorno ha infiammato il nostro cuore. Sogno e profezia
insieme. Memoria di come sognarono i nostri anziani, i nostri padri
e madri e coraggio per portare avanti, profeticamente, questo sogno.
Questo atteggiamento
renderà fecondi noi consacrati, ma soprattutto ci preserverà da una tentazione
che può rendere sterile la nostra vita consacrata: la tentazione della
sopravvivenza. Un male che può
installarsi a poco a poco dentro di noi, in seno alle nostre comunità.
L’atteggiamento di sopravvivenza ci fa diventare reazionari, paurosi, ci fa
rinchiudere lentamente e silenziosamente nelle nostre case e nei nostri schemi.
Ci proietta all’indietro, verso le gesta gloriose – ma passate – che, invece di
suscitare la creatività profetica nata dai sogni dei nostri fondatori, cerca
scorciatoie per sfuggire alle sfide che oggi bussano alle nostre porte. La
psicologia della sopravvivenza toglie forza ai nostri carismi perché ci porta
ad addomesticarli, a renderli “a portata di mano” ma privandoli di quella forza
creativa che essi inaugurarono; fa sì che vogliamo proteggere spazi, edifici o
strutture più che rendere possibili nuovi processi. La tentazione della
sopravvivenza ci fa dimenticare la grazia, ci rende professionisti del sacro ma
non padri, madri o fratelli della speranza che siamo stati chiamati a
profetizzare. Questo clima di sopravvivenza inaridisce il cuore dei
nostri anziani privandoli della capacità di sognare e, in tal modo, sterilizza
la profezia che i più giovani sono chiamati ad annunciare e realizzare. In
poche parole, la tentazione della sopravvivenza trasforma in pericolo, in
minaccia, in tragedia ciò che il Signore ci presenta come un’opportunità per la
missione. Questo atteggiamento non è proprio soltanto della vita
consacrata, ma in modo particolare siamo invitati a guardarci dal cadere in
essa.
Torniamo al brano
evangelico e contempliamo nuovamente la scena. Ciò che ha suscitato il canto di
lode in Simeone e Anna non è stato di certo il guardare se stessi, l’analizzare
e rivedere la propria situazione personale. Non è stato il rimanere chiusi per
paura che potesse capitare loro qualcosa di male. A suscitare il canto è stata
la speranza, quella speranza che li sosteneva nell’anzianità. Quella speranza
si è vista realizzata nell’incontro con Gesù. Quando Maria mette in braccio a
Simeone il Figlio della Promessa, l’anziano incomincia a cantare, fa una
propria “liturgia”, canta i suoi sogni. Quando mette Gesù in mezzo al suo
popolo, questo trova la gioia. Sì, solo questo potrà restituirci la gioia e la
speranza, solo questo ci salverà dal vivere in un atteggiamento di
sopravvivenza. Solo questo renderà feconda la nostra vita e manterrà
vivo il nostro cuore. Mettere Gesù là dove deve stare: in mezzo al suo popolo.
Tutti siamo
consapevoli della trasformazione multiculturale che stiamo attraversando,
nessuno lo mette in dubbio. Da qui l’importanza che il consacrato e la
consacrata siano inseriti con Gesù nella vita, nel cuore di queste grandi
trasformazioni. La missione – in conformità ad ogni carisma particolare – è
quella che ci ricorda che siamo stati invitati ad essere lievito di questa
massa concreta. Certamente
potranno esserci “farine” migliori, ma il Signore ci ha invitato a lievitare
qui e ora, con le sfide che ci si presentano. Non con atteggiamento difensivo,
non mossi dalle nostre paure, ma con le mani all’aratro cercando di far
crescere il grano tante volte seminato in mezzo alla zizzania. Mettere
Gesù in mezzo al suo popolo significa avere un cuore contemplativo, capace di
riconoscere come Dio cammina per le strade delle nostre città, dei nostri
paesi, dei nostri quartieri. Mettere Gesù in mezzo al suo popolo significa
farsi carico e voler aiutare a portare la croce dei nostri fratelli. E’ voler
toccare le piaghe di Gesù nelle piaghe del mondo, che è ferito e brama e
supplica di risuscitare.
Metterci con Gesù in
mezzo al suo popolo! Non come attivisti della fede, ma come uomini e donne che sono
continuamente perdonati, uomini e donne uniti nel battesimo per condividere
questa unzione e la consolazione di Dio con gli altri.
Metterci con Gesù in
mezzo al suo popolo, perché «sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la
“mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in
braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che [con
il Signore] può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una
carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. […] Se potessimo seguire questa
strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice,
tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri»
(Esort. ap. Evangelii gaudium, 87) non solo fa bene, ma trasforma la nostra
vita e la nostra speranza in un canto di lode. Ma questo possiamo farlo
solamente se facciamo nostri i sogni dei nostri anziani e li trasformiamo in
profezia.
Accompagniamo Gesù ad
incontrarsi con il suo popolo, ad essere in mezzo al suo popolo, non nel
lamento o nell’ansietà di chi si è dimenticato di profetizzare perché non si fa
carico dei sogni dei suoi padri, ma nella lode e nella serenità; non
nell’agitazione ma nella pazienza di chi confida nello Spirito, Signore dei
sogni e della profezia. E così condividiamo ciò che ci appartiene: il canto che
nasce dalla speranza.