giovedì 28 settembre 2023

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

OLTRE IL DIRE E IL FARE


Abbiamo lasciato, domenica scorsa, la parabola dei lavoratori nella vigna che anche questa domenica e l’altra ancora, ritroveremo il riferimento. Questo è indice che il lavoro da svolgere in questa vigna, al padrone, cioè a Dio, preme tanto.
Purtroppo, il Signore riscontra molta ipocrisia. L’ipocrisia è una parola greca che indica l’attore, un mettere in scena, un essere falsi. Per questo anche questa domenica, Gesù continua il suo discorso pedagogico per correggere la nostra fede distorta per essere meno ipocriti. Occorre un’adesione del cuore alla Parola di Dio per combattere l’ipocrisia. Ed è proprio il Vangelo di questa domenica che ci propone la parabola dei due figli che possiamo definirli "mistero di contraddizione tra loro", nel senso che ci rappresentano con i loro "sì" e con i loro "no".
Perché mistero di contraddizione? Perché somiglia al nostro modo di credere, al nostro modo di pensare, al nostro modo di sapere o essere preparati per quel tal scopo e invece... no, si continua con atteggiamenti "di facciata", atteggiamenti ipocriti, esteriori che rimangono lì e quindi non ci conducono alla conversione.
Gesù raccontando questa parabola ci introduce al discernimento dicendo: “che ve ne pare?”. Del resto, anche nella prima Lettura, presa dal Libro del profeta Ezechiele, abbiamo un invito a discernere: "Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra?". E qui è molto forte questa domanda, perché ci fa capire che spesso contestiamo a Dio il suo agire mentre siamo noi che con il nostro modo di fare roviniamo e calpestiamo ogni cosa. E la contestazione spesso esce dalla bocca di chi ha maggior confidenza nel Signore.
Questi atteggiamenti ipocriti ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Purtroppo, con Dio non esistono sceneggiate, falsità, aver quella pretesa di barattare con Lui come se fossimo davanti a un giudice per fargli applicare una legge. No! Dio è padre e il problema sta nel non riconoscersi figli. Ecco perché questa parabola mette a nudo quella contrapposizione tra il “no” e il “sì”, tra il “dire” e il “fare” che caratterizzerà sempre la nostra vita, la nostra quotidianità. Ed è proprio questa contrapposizione che diventa una sorta di divisorio: da una parte quelli che fanno e dall'altra quelli che parlano, come potrebbe apparire, ma divide la nostra stessa vita sprecata in parole prive di senso, sprecata dalla stessa ipocrisia. Forse dimentichiamo che Dio legge i nostri cuori e non la nostra esteriorità (cfr. 1Sam 16,7)!
In questo momento, Gesù ci sta facendo osservare che i nostri comportamenti nella vita fanno la differenza. In altre circostanze ci aveva avvisato dicendoci: "Non chiunque mi dice 'Signore, Signore', entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Gv 7,21).
Anche la parabola fa osservare chi ha compiuto la volontà del padre. ma è solo questione di obbedienza? No! La riflessione va oltre la semplice obbedienza che si può notare. Dio non ci vuole perfetti esecutori dei suoi comandi, che poi alla prima occasione lo inganniamo con le nostre false comodità. Ci chiama ad essere figli e quando si parla di figli si parla di cuore. Ci chiama ad essere figli pieni di amore, affettuosi, anche se alle volte vogliamo litigare con lui, allontanarci da lui per qualcosa che difficilmente capiamo, incomprensibile al nostro puro ragionamento, ma alla fine, avendo quel cuore, si ritorna a fare la sua volontà, a farla seriamente, concretamente, capovolgendo anche la nostra vita, una vita plasmata dalla Sua Parola, dal Suo amore.
Purtroppo, come dicevo, l’ipocrisia è all’ordine del giorno e questa parabola racconta in altre parole il rifiuto di Cristo Gesù e quelli che lo rifiutano sono proprio gli esperti della religione e i loro responsabili e Cristo li porta ad ammettere questo, anche se non se ne rendono conto. Quante volte anche noi, non ci rendiamo conto di come celebriamo l’Eucarestia: un rito senza senso, non perché non ci piace il sacerdote, perché non ci sono i canti o sempre i soliti, etc., ma perché abbiamo ridotto una celebrazione di fede a una superstizione e ad avere una fede di pura facciata.
Abbiamo davanti una parabola che interroga la nostra fede. Chiediamoci pure: che tipo di cristiano sono? occasionale, freddo, obbediente chissà a quale rito per paura dell’inferno? Oppure un cristiano pieno di amore, amato, perdonato, entusiasta, che mi riconosco figlio di un Dio che chiamiamo Padre?
Fermiamoci dinanzi a questa Parola e scopriremo che nella nostra vita manca una rinascita del cuore, una rinascita della fede, assumendo i tratti di Gesù stesso, così come ci invita san Paolo nella seconda lettura! Ricordiamoci che essere discepoli significa anzitutto essere figli, così come siamo. Il discepolo non è al di sopra di nessuno, anzi è colui o colei che è capace di discernimento interiore, che si sente bisognoso di Dio, bisognoso di ascoltare la sua Parola, quella Parola già incontrata e che tocca il cuore, che si riconosce come nella canzone di Mahmood e Blanco: “E ti vorrei amare ma sbaglio sempre. E mi vengono i brividi”.
Non ci resta, come dice un’altra canzone: “apri tutte le porte, gioca tutte le carte, fai entrare il sole” (Gianni Morandi). Sì, apriamo le porte del cuore perché entri Gesù. Con Lui possiamo giocare tutte le carte, perché Egli è quel sole che ci aiuta a combattere quell’ipocrisia che è in noi, che ci rende liberi, sinceri e schietti con Dio.
Riconosciamoci amati e perdonati da Lui.

Buona domenica nel Signore a tutti voi!